sabato 18 luglio 2015

Milano

Milano o la ami o la odi... Io la amo. Follemente. Ma per amarla e capirla, non basta esserci nati, bisogna essere un po' "milanesi inside", milanesi dentro. Cioè naturalmente predisposti alla velocità e alla fretta, un po' nevrotici, in movimento perpetuo, con gli occhi e le antenne drizzate 24 ore su 24, 7 giorni su 7, facili alla noia, affamati di novità, dotati di volontà e nervi saldissimi. Se resisti senza mollare, allora questa città ti accoglie, ti ri-ama con trasporto autentico. E ti fa crescere. Perché Milano è meritocratica e materna, a modo suo come le mamme che la abitano, con poche forme convesse e molto senso pratico. 

Non ho sempre amato la mia città, come tutti penso, ma ci sono sempre stata bene, ho ricordi della mia infanzia bellissimi pieni di libertà benché vivessi in città, ma quando anni fa mi affacciai nel mondo del lavoro desiderosa di entrare in quell'ambiente ostico e fascinoso che era l'editoria, Milano mi sembrava ancora più bella. Le case basse affacciate e riflesse sullo specchio d'acqua scuro dei Navigli, lo scorcio poetico delle colonne di San Lorenzo, l'acciottolato pieno di balconcini fioriti e di bistrot di Brera, il viavai di studenti nei cortili magnifici della Statale, le vetrine scintillanti di Montenapoleone. Mi sentivo e mi sento ancora oggi, ogni volta che mi capita di poter perderci qualche ora, ubriaca di libertà e frenesia, non capisco quello che molti dicono su Milano e i milanesi - che pensano solo a lavorare, che ridono poco e se la tirano molto - non penso sia vero, forse non per tutto. Forse all'inizio può sembrare così. Questa città è come i suoi abitanti: si disvéla lentamente. Bisogna avere pazienza per farsela amica. Ma poi, ha grande cuore. 

Milano la scopri poco a poco come dicevo e nei miei primi passi da ragazza quando mi affacciavo al mondo sono stati pieni di scoperte e stupori. Il metrò all'ora di punta; le case di 25 mq. propinate come occasioni "da non perdere", il lavaggio delle strade una volta a settimana, i parcheggi selvaggi e le multe vissute come ineluttabile fatalità, la città chiusa per ferie durante gli esodi estivi e le vie che si svuotavano nel weekend. Il sushi a pranzo e a cena, gli aperitivi, il Bloody Mary tracannato come Coca Cola, il pane arabo e quello di Altamura, perché la michetta non si trova più. E poi le zanzare tigre, a sciami, peggio di Saigon. Infaticabili, voraci resistenti a tutto, ormai penso si cibino di Autan. 

La prima volta che davvero mi sono sentita milanese, più di qualsiasi signor Colombo o Brambilla, non che non lo sia, sono nata qui, ma è il senso di appartenenza che improvvisamente arriva, è stato un giorno di ritorno da una vacanza alla Stazione centrale. La fine di un tipico agosto senz'anima viva. "Sono a casa", ho pensato. E mai più di allora ho provato un senso di pace. Una sensazione inaspettata per me che ho amato-odiato questa città come si fa coi fidanzatini che "ci sanno fare". Perdendola di vista per un po' inchiodata a certi orari di lavoro non stop. E rinunciando orgogliosamente a frequentarla negli anni in cui perdeva lentamente la sua verve, diventando la più anonima e grigia delle capitali europee, attanagliata dagli scandali politici e involgarita dall'invasione dei reality e dei nuovi parvenu.

Poi un giorno mi sono ripresa la mia vita e sono tornata a rivedere la mia città e Milano -sorpresa!- era tornata. Elettrica, eclettica, vivace cosmopolita. Un pullulare di nuovi locali, gente per le strade, una strana euforia. Persino il cielo, alzando il naso all'insù per rimirare i nuovi grattacieli, mi è sembrato più azzurro. Forse è questione di DNA. Però Milano è fatta così, muta pelle di continuo. E chi la scopre si rende conto che è meno snob di quel che sembra. E con i suoi giardini segreti, gli angoli nascosti, è tutta da scoprire e con il sole è anche più bella e può stare a paragone con le grandi città.







giovedì 5 febbraio 2015

La notte scorsa...

La notte scorsa, ero ricoperta di sabbia tutta sporca di terra e sole, isolata dal resto del mondo e libera, stanotte sono pulita, in un letto dalle candide lenzuola, di nuovo nel mondo civile e prigioniera.

La notte scorsa, l'ultimo messaggio del sole al tramonto, scritto a caratteri d'oro, bruciava dentro di me e la volta stellata portava in cielo i miei pensieri e li rendeva liberi. Stanotte il sole è tramontato in silenzio senza brillare, senza oro, ed io, sono rimasta a fissare un infinito, contorno, roteante disegno sul soffitto della mia stanza.

Non sono più una principessa a cui massaggiano le mani e i piedi con olii essenziali e ambra profumata, la cui parola è legge, che condivide la semplice ospitalità di dignitosi e orgogliosi nomadi nei regni del deserto. Ora la mia parola è legge in proporzione alla capienza del mio borsellino, le mie mani e i miei piedi vengono baciati se in albergo alloggio a un piano alto. Non sono più in una terra in cui gli uomini e le donne sono giudicati dalle loro capacità di essere uomini e donne: è il costo del mio abbigliamento a conferirmi un rango. Non sono più fra persone alle quali dico quello che penso e con le quali sto zitta quando non ho niente da dire. Sono in un ambiente in cui dire quello che si pensa è un'offesa, in cui non si capisce il silenzio, che è mal visto come fosse un visitatore misterioso. Sono in un mondo dove meno si ha da dire più ci si sforza a dirlo, e più si ha da dire, maggiore è lo sforzo per tacere.

Ogni cosa sembra irreale e inutile, ogni cosa suona falsa...

E ancora più difficile, è rendermi conto che l'altro mondo esiste sempre, là fuori, lontano, e sarebbe piuttosto facile raggiungerlo: basterebbe salire su un aereo.

Guardo il mio vecchio cappotto logoro e mi assale un senso di rimorso al pensiero di essermene vergognata. Qui nel mezzo di questa confusa parvenza di realtà, esso mi parla di molti fatti reali.

Passo la mano lungo il tessuto...e i ricordi mi assalgono...

Come spesso non era riuscito a coprire i crudeli morsi della fame e il soddisfatto senso di sazietà; come aveva sentito i battiti del mio cuore risvegliati dalla paura, o accelerati da un moto d'allegria; come aveva conosciuto i lunghi sospiri di quieta gioia di fronte a un panorama sereno.
Questo strappo me lo feci su una roccia, il giorno che mi arrampicai in cima alle montagne nei dintorni di Chenini, e l'ho rammendato una sera tranquilla sulle rive di un oasi nel deserto. Ho perso questo bottone di  notte salendo le scale e le rampe che un tempo permettevano di issare i raccolti nelle celle di magazzinaggio, le ghorfas, e si è rotto quando un mio piccolo amico nomade mi spinse su per la roccia. Questa bruciatura è stata fatta invece da Albi, che lasciò cadere un tizzone ardente con il quale si stava accendendo la sigaretta nella tenda della nostra guida. 

Questo e altro mi racconta il mio cappotto...Non provo più vergogna.

Sono convinta che, se la gentile signora seduta davanti a me capisse tutto ciò, non mi vedrebbe più come una povera reietta, perché c'è qualcosa di molto onesto in questo mio cappotto.

Tento di ricordare che cosa volesse dire vivere nella civiltà, ma tutto quello che mi torna alla mente è come fosse stato difficile staccarmene. Mentre ero lì, non sapevo che cosa avrei potuto volere altrove. Ma, una volta lontana, ogni difficoltà era scomparsa; d'improvviso mi sembrò che tutto accadeva naturalmente. Non mi mancava nulla di quello che mi lasciai alle spalle. E siccome era stato difficile distaccarmene quando ancora ci vivevo, ora avevo delle difficoltà a tornarci. Questo era ancor più sconcertante, dal momento che la civiltà non era per me un mondo nuovo nel senso in cui lo era stato l'altro. Avevo passato molti lunghi anni in quel mondo eppure, ritornando, lo trovavo strano e incomprensibile.

Mi alzai da tavola...

Alberto mi raggiunse sulla porta e andammo a sederci su un lussuosissimo divano rosso.
I camerieri si precipitarono da noi con vassoi di caffè, tè, tisane e squisiti tramezzini e dolcetti.
Signore con vestiti e cappelli sgargianti si affrettavano fuori dal ristorante e uomini in abito da sera si riposavano e fumavano negli angoli del salone.

Alberto con circospezione accarezzò il divano: "È molto morbido, disse, ma la sabbia era meglio"...Un lungo e intenso sguardo silenzioso tra noi e tutto fu chiaro...
Era la volta di ripartire...

lunedì 29 dicembre 2014

Per molti anni ho viaggiato soltanto per me stessa

Per molti anni ho viaggiato soltanto per me stessa. Mi rifiutavo di scrivere dei miei viaggi e anche programmarli con qualche obbiettivo utile. Molti mi chiedevano come mai o quale ricerca mi avesse portato in Malesia, Nepal ecc. perché ovviamente nessuno sarebbe andato in quei luoghi per semplice divertimento. Io sì.
Provavo un vero bisogno di ringiovanimento, di esperienze che mi allontanassero dalle cose che ero solita fare, dalla vita che conducevo normalmente. Nella vita di tutti i giorni provavo spesso una consapevolezza soffocante dello scopo insito in tutto ciò che facevo.

Ogni libro che leggevo, ogni film che vedevo, ogni pranzo e ogni cena cui prendevo parte, sembravano avere sempre una ragione. Di tanto in tanto sentivo il bisogno imperioso di fare qualcosa per nessun motivo. Concepivo questi viaggi come delle vacanze, come tregue nel corso della mia vita, ma poi non si rivelavano tali.

Mi resi conto, alla fine, che molti dei miei cambiamenti nella mia vita erano avvenuti grazie alle mie esperienze di viaggi. Perché, per quanto addomesticati rispetto alle escursioni di veri avventurieri, per me questi viaggi erano autentiche avventure.
Ho lottato con le mie paure e i miei limiti e ho imparato quello che ero in grado di imparare. Ma con il passare del tempo, il fatto di nn avere mai scritto sui miei viaggi cominciò stranamente a pesarmi...l'assimilazione di esperienze importanti ti obbliga quasi a scriverne. Attraverso lo scrivere ti appropri dell'esperienza, indaghi sul significato che ha per te, giungi a possederla e alla fine, metterla a disposizione degli altri.

Scrivere è poi un viaggio interiore che fa da completamento a quello esteriore, benché la distanza tra la sensazione interiore e uno stimolo esterno spesso non è chiara alla mente. Ma il tentativo di districare le mie percezioni è utile. Ho spesso la sensazione di andare in qualche luogo lontano per ricordarmi chi sono veramente. Non è un mistero perché debba essere così. Spogliata di ciò che ti circonda normalmente, i tuoi parenti, i tuoi amici, le tue abitudini quotidiane, il tuo cibo nel frigorifero, i tuoi vestiti nell'armadio: senza tutto questo sei obbligata a fare un'esperienza diretta. È attraverso tale esperienza diretta che ti rendi conto inevitabilmente di chi sei tu che la stai vivendo. Non sarà comodo, ma viaggiare ti rafforza sempre.

Alla fine mi accorsi che l'esperienza diretta è l'esperienza di maggior valore che si possa fare. L'uomo occidentale è talmente circondato da idee e bombardato da opinioni, concetti e strutture di informazione di ogni tipo, che diventa difficile fare esperienza di qualsiasi cosa senza il filtro di queste strutture. Il mondo naturale...la nostra fonte tradizionale di comprensione diretta...sta scomparendo rapidamente. Nelle città moderne ormai non si possono nemmeno vedere le stelle.

Non è sorprendente che l'uomo abbia perso l'orientamento, che abbia perso le tracce di chi sia veramente e di cosa sia davvero la sua vita.

Viaggiare, quindi, mi ha aiutato a fare esperienze dirette. E a concedermi di più.

domenica 28 dicembre 2014

Il Monte Kailas la Montagna degli Dei

Conosci la "Gemma delle Nevi" il Monte Kailas la Montagna degli Dei.
Si erge a picco sulle zone desertiche del Tibet Occidentale.


La prima volta che la vidi era il 1984, in un documentario.
Era una vista da togliere il fiato. I racconti che ne avevo sentito non le rendevano giustizia; tuttavia più della montagna stessa, a tenermi incollata allo schermo furono i pellegrini che andavano verso di essa con una spinta di devozione davvero incredibile e sincera.
Tra di loro c'era anche un indù, con una gamba sola che appoggiandosi a una canna era partito da Calcutta ed era per strada da vent'anni.
Un passo dietro l'altro si era arrampicato sull'himalaya e si trovava ormai a 5000 metri. Ma non era l'unico elemento straordinario. C'erano persone anch'essi in viaggio da vent'anni che giungevano dal Tibet orientale strisciando letteralmente sul terreno.

La cosa più strana e davvero singolare era che nel bel mezzo della standardizzazione incessante e l'irresistibile avanzare dei tempi moderni, vedere la determinazione e la sopravvivenza di persone talmente concentrate sulla vita futura delle loro anime da impegnare tutta l'esistenza nel cammino verso il monte Kailas senza un secondo fine mi fece crescere delle domande.

Tutte queste persone: l'indù con una gamba sola e i pellegrini tibetani che procedevano sul ventre lungo il tortuoso sentiero non erano asceti del clero, ma gente semplice. Quale forza magnetica esercitava su di essi il Kailas?

Decisamente dovevo vedere quella montagna con i miei occhi.
Il problema era ottenere l'indispensabile permesso speciale.
Politicamente è fisicamente, l'interno del Tibet occidentale era il luogo più inaccessibile al mondo.

L'occasione arrivò nel luglio 1990.
Un mio grandissimo amico il mio migliore amico in realtà mi aveva chiesto di sposarlo e la cosa più incredibile era che io avevo accettato, ma in cambio gli chiesi il tetto del mondo e con una buona dose di persuasione riuscii a programmare il viaggio con il mio neo maritino...
sapevo che l'8 giugno di quell'anno cadeva, il Saga Dawa, la festa del 15°giorno del quarto mese del calendario tibetano che ricorda la nascita del Buddha, il giorno della morte e dell'illuminazione.
Secondo il calendario cinese era l'anno del cavallo e compiere il pellegrinaggio al Kailas nel periodo prossimo al Saga Dawa nell'anno del cavallo che cade ogni 12 anni significava acquisire il massimo dei meriti.

Il piano prevedeva di incontrare prima la nostra guida a katmandu, uno sherpa molto simpatico, preparato e affabile e poi dopo tre giorni proseguire insieme con delle guide tibetane che ci avrebbero aiutato nel passaggio di frontiera.
Ma evidentemente insorsero dei problemi. L'interprete tibetano doveva aver detto qualcosa che aveva irritato la guardia di confine cinese e questa, improvvisamente, aveva chiuso il passo e se ne era andata, lasciandoci bloccati a Zangmu.

Il mio sogno si sgretolò a pochi giorni di cammino.
Rimasi a contemplare quella strada e mi sembrò di cogliere un po' dell'estasi religiosa che coglie i pellegrini quando arrivati vicini al monte si rivela in tutta la sua grandiosità distaccata.
Un pellegrinaggio lungo, arduo e pieno di preghiera.
"I peccati sono lavati alla vista dell'himalaya". Dice un antico proverbio.
E grazie a ripetute penitenze sperano di purificarsi dai peccati e di rinascere come esseri umani, continuando in tal modo di accumulare meriti in vista dello scopo ultimo: la liberazione dell'attaccamento mondano.

Il Kailas, centro dell'universo secondo la credenza popolare, accoglie un flusso incessante di pellegrini, i quali adempiono osservanze religiose che rinnovano la vita, la purificano.

Al culmine di un viaggio arduo, ho avuto la fortuna di vedere proprio con i miei occhi qualcosa di quello che succede lassù ma non sono stata trovata pronta per arrivare alla vetta.
Ma ricordo come fosse adesso che alzando gli occhi al cielo vidi fluttuare le formule magiche dei drappi votivi colorati che garrivano al vento insieme alle aquile, segno che le preghiere stavano salendo verso gli dèi.

Con i volti radiosi ripartimmo incamminandoci passo dopo passo nel sentiero della vita più consapevoli e più pieni di verità.


Una splendida avventura la vita!!!  Namasté

mercoledì 28 agosto 2013

Viva il brunch del weekend

Dormire fino a tardi senza rinunciare al dolce piacere della colazione e all'abbondanza di un pranzo completo. 
I piatti perfetti da preparare per un brunch con gli amici

French toast
pancarré
3 uova
200 ml di latte
5 fragole
30 gr di burro
il succo di 1/2 arancia
1 bustina di vanillina
2 cucchiai di zucchero
1/2 cucchiaino di cannella
noce moscata qb

In una teglia sbattete le uova con il latte, la vanillina, la noce moscata, il succo di arancia, la cannella e lo zucchero. Inzuppate le fette di pane in questo composto e rosolatele in una padella con un po’ di burro e olio. Servite i toast caldi, accompagnati da una macedonia di fragole condite con zucchero e limone.

Blueberry muffin
1 uovo
250 gr di farina
250 ml di latte
3 cucchiaini di lievito per dolci
125 gr di mirtilli
125 gr di zucchero
60 gr di burro
un pizzico di sale

Mescolate le uova con lo zucchero, aggiungete il burro fuso, il latte e la farina mescolata con sale e lievito.
Prima di incorporare i mirtilli o l’uvetta (per il cioccolato non è necessario), infarinateli e uniteli all’impasto mescolando delicatamente.
Imburrate e infarinate circa 12 stampini da muffin e riempiteli di impasto per circa 3/4. Fate cuocere in forno a 180° per 20 minuti.

 
Pancakes
due cucchiai di zucchero
180 g di farina bianca 00
1 cucchiaino di lievito in polvere
un pizzico di sale
tre uova
250 ml di latte
125 g di ricotta fresca
burro fuso per spennellare
sciroppo d’acero
mirtilli freschi

In una ciotola setacciate la farina insieme al lievito, al sale e aggiungete i due cucchiai di zucchero.
In una seconda terrina sbattete (non montate) i tuorli (conservando gli albumi) insieme al latte fino a quando saranno amalgamati. Formate una fontana nella ciotola con la farina e versatevi all’interno il composto con i tuorli mescolando con una spatola. Incorporate poi la ricotta mescolando con cura.
Montate gli albumi a neve ferma e incorporateli con movimenti dall’alto verso il basso alla pastella a base di tuorli.
Scaldate una padella antiaderente e spennellatela con un po’ di burro.
Versate un mestolo scarso di pastella nella padella creando delle frittelle circolari che farete cuocere finché non saranno ben dorati. Procedete in questo modo fino ad esaurimento della pastella, avendo cura di spennellare di tanto in tanto la padella con il burro fuso.
Servite i pancake caldi insieme allo sciroppo d’acero e ai mirtilli freschi.

Eggs Benedict
Le Eggs Benedict sono un piatto composto da un muffin inglese tagliato a metà, condito con bacon, uova in camicia e salsa olandese.
 Per 4 persone
quattro uova
quattro fette di pane
quattro fette di bacon,
un cucchiaio di aceto di vino bianco
olio d’oliva
sale e pepe
Per la salsa olandese:
100 gr di burro
un cucchiaio di farina
due tuorli
succo di un limone
un bicchiere d’acqua bollente
sale e paprika

Preparate la salsa olandese facendo fondere in una casseruola una noce di burro e un cucchiaio di farina quindi bagnate con l’acqua bollente; lavorate bene la salsa in modo che non si formino grumi.
Aggiungete i tuorli e mescolate bene, poi incorporate gradatamente il burro ammorbidito continuando a montare la salsa.
Infine profumate con il succo di limone.
Preparate le uova in camicia in acqua acidulata con l’aceto, nel frattempo fate tostare le fette di pane. Saltate le fettine di pancetta in pochissimo olio d’oliva.
Al momento di servire le Uova Benedict disponete sui piatti le fette di pane, quelle di pancetta poi le uova, infine coprite con la salsa olandese e una spolverata di paprika.

Focaccia al rosmarino
Per l’impasto
una patata
350 gr di farina
un cubetto di lievito di birra
2 cucchiai di olio
50 gr di burro
acqua tiepida qb
sale
zucchero
Per la salamoia
acqua
olio
sale
rosmarino

Schiacciate la patata e mescolatela insieme alla farina, il lievito, un pò d’olio, burro, sale ed un pizzico di zucchero. Aggiungete poi un pò di acqua tiepida ed impastate per bene il tutto.
Mettete poi a riposare il panetto ottenuto riponendolo in una tortiera che avrete unto d’olio per almeno 40 minuti.
In una tazza preparate una salamoia mescolando con un dito d’acqua l’olio e il sale.
Versate la salamoia sulla focaccia che sarà, nel frattempo, lievitata ed aggiungete il rosmarino.
Mettete a cuocere la vostra panfocaccia in forno ventilato a 200° per circa 30 minuti.

 Crespelle ai funghi
 Per le crespelle:
due cucchiai di farina bianca
un uovo intero
un tuorlo d’uovo
250 ml di latte
una grattatina di noce moscata
un pizzico di sale
Per il ripieno:
600 g di funghi
due cucchiai di prezzemolo tritato
due cucchiai di olio di oliva
uno spicchio di aglio
sale q.b.
300 ml di besciamella
200 g di formaggio tipo fontina
200 ml di panna
50 g di burro
due cucchiai di parmigiano grattugiato
foglioline di maggiorana

Frullate latte, uova, farina, noce moscata e sale e riscaldate bene il padellino ungendolo con poco burro.
Versatevi tre cucchiai di pastella ruotando il padellino in modo da ricoprire bene il fondo.
Dopo un minuto, infilando una spatola di legno sotto la crespella, rigiratela e cuocetela per pochi secondi. Fate poi scivolare la crespella su di un piatto e mano a mano che sono pronte mettetele una sull’altra e fatele raffreddare.
Nel frattempo pulite bene i funghi e fateli saltare in una padella con l’olio, il prezzemolo e un spicchio d’aglio.
Aggiungeteli poi alla besciamella in cui avete sciolto il formaggio.
Mescolate bene aggiungendo la panna in modo che il composto risulti bello cremoso. Spalmate su ogni crespella un po’ del ripieno ai funghi, poi piegatela in quattro.
Adagiate le crespelle in una pirofila imburrata sovrapponendole leggermente, versateci sopra la besciamella ai funghi avanzata, aggiungete dei fiocchetti di burro, cospargetele con il formaggio grattugiato e infornate a 180 gradi per circa 15 minuti.

La cosa a cui tengo di più è la libertà da qualunque costrizione

Abbiamo tutti troppe cose, sono sicura che vivremmo meglio con meno oggetti e parlando di denaro attribuisco il valore del semplice strumento. Nessun altro. 

Mi sono accorta che serve poco per vivere. Quasi tutto quello che faccio, quello che mi interessa e fa parte della mia vita, costa poco. Non mi servono macchine ultimo modello, case a Cortina, vestiti alla moda, non ho bisogno di alcun oggetto particolare per essere felice. 

La cosa a cui tengo di più è la libertà da qualunque costrizione, sono sempre stata così.
Amo poter perdere tempo, poter perdere tempo con mio nipote, mia sorella, con mia mamma e mio papà, amo poter fare due passi di danza con mio marito così senza un perché, e stare con gli amici veri.

Questo tuttavia non è il mondo dei sogni. Si può sognare stando nel mondo così com’è, come cerco di fare, come fanno molti. Per questo quasi tutto quello che faccio con passione è in vendita.

Vendo i miei lavori di pittura, vendo le mie torte, i miei biscotti, un giorno forse affitterò casa, vendo quel che so fare, cucinare e dipingere e poi ogni tanto scrivo. Se non mi servissero per vivere, non vorrei soldi per quel che so fare. Regalerei e inviterei tutti gratis. Chi mi conosce lo sa. 
Se avrò fortuna lo farò.

Però sono orgogliosa di questo schema di vita. Non provo alcun rimorso o vergogna. Vergogna la deve provare chi sostituisce la gioia vera con quella fittizia del consumismo, chi non si emoziona per una frase scritta su un libro o chi non ascolta. Vendere quello che so fare per essere libera è una bella storia. Più bella di quando lavoravo, guadagnavo, avevo un ruolo sociale più definito. Quella vita mi piaceva, ma non ero libera e poi la conoscevo troppo.

Una delle cose che dico a tutti è: “Devi festeggiare un avvenimento importante? oppure devi dipingere qualcosa? Chiedi un preventivo. Io ti organizzo un aperitivo, un una cena in terrazzo, un tea party in un giardino, un picnic in riva a un fiume sarà tutto sorprendentemente magico e pieno di poesia e per quanto riguarda la pittura ti dipingo per la metà”. A me che un prezzo sia alto o basso, giusto o ingiusto, non mi interessa. Non mi devo arricchire. Mentre cucino e mentre dipingo penso molto, e dunque sto bene. Faccio i miei lavori con calma, e cerco di farli bene. Se qualcuno risparmia il cinquanta per cento e io guadagno qualcosa, va bene così. E’ una nuova economia. Tempo contro denaro. E vince sempre il tempo. Cioè la vita vera.

L’unica certezza della nostra esistenza è che moriremo e questo dovrebbe essere il più potente motore per darci la carica. Sul resto si può discutere. Dovremmo temere solo questo appuntamento fatale, e invece siamo pervasi dalla paura di sconvolgere il nostro provvisorio equilibrio. Dovremmo apprezzare quel che c’è, perseguire la conoscenza, accumulare esperienze, cercare l’equilibrio interiore e l’armonia, godere di noi stessi e delle relazioni con gli altri… e invece no. L’unica cosa che non torna indietro è il tempo e noi lo sprechiamo tra paure e incombenze inautentiche. Lo riempiamo, non lo utilizziamo. Lo schema fisso che tutti seguiamo (lavorare, consumare, sprecare) è un rimedio alla paura di morire: teniamo occupata la mente per non pensarci.

Contro la paura, bisogna scoprire che si può vivere con poco, oltre lo schema "lavoro, guadagno, spendo".

Le paure diffuse sono tante, e si tratta di sentimenti comprensibili. Ci siamo attrezzati per affrontare un certo tipo di vita, adeguandoci a uno schema preciso, senza alzate d’ingegno, senza grilli per la testa, senza creatività. Non siamo una generazione di innovatori ma di esecutori, un po’ come questa non è un’epoca di invenzioni ma di applicazione di invenzioni precedenti. Il salto innovativo è stato fatto decenni fa con il computer; ora lo si deve far lavorare, trovando il modo di sfruttarlo al meglio. Lo stesso è avvenuto sul piano sociale. L’innovazione è stata il benessere diffuso, sorretto dal consumo. Ora bisogna pigiare al massimo su quell’acceleratore. Non c’è un’ipotesi alternativa. Tant’è che nessun politico immagina una vita diversa. Anche la sinistra è preoccupata del calo dei consumi.

Neppure la paura più ancestrale, quella di morire di fame, può ritenersi fondata. Oggi di fame da questa parte del globo "nessuno muore". Le altre sono tutte remore psicologiche, dettate dall’insicurezza e dalla caducità delle speranze. Spesso le paure si presentano associate in un cocktail che immobilizza. 
Il loro effetto principale è che ci impietriscono. Quando riescono a bloccarci, costringendoci a fare ogni giorno le cose di sempre, senza idee, senza cambiare mai, il loro obiettivo è raggiunto. Non sto parlando del timore che ci assale quando dobbiamo attraversare un ponte pericolante. In quel caso si tratta di buon senso: se il ponte dovesse cedere, cadremmo nel vuoto e moriremmo. Le paure del cambiamento non sono così. Se provo, comunque, non muoio. Anzi, se provo morirò comunque, come è scritto, ma non ora. Dunque perché non tentare? Perché non tentare almeno parzialmente, trovando una via intermedia, saggiando il terreno in modo graduale?

Ecco che la paura comincia a cedere. Un po’ come quando proviamo ad assaggiare sulla punta della lingua una pietanza che temiamo non ci piaccia. Quella convinzione ci immobilizza, ma se facciamo almeno il gesto di provare, la paura scricchiola, la pietanza potrebbe piacerci, l’immobilità potrebbe sciogliersi in un progresso. Per me è andata così. Fatto qualche passo, il mio ponte si è rivelato più solido del previsto e l’ho attraversato. Non solo. Dopo anni che vivo “dall’altra parte del fiume” non sono ancora morta, e non ho progetti imminenti a riguardo. “Di là dal fiume e tra gli alberi” la vita è anche difficile, anche dura, ma dà molto senso alla mia vita averci provato. Morirò anche io, certo, ma senza alcun rimpianto verso le scelte di vita che ho avuto a disposizione. Forse, per questo, morirò di meno.

domenica 25 agosto 2013

Quel luogo non poteva essermi più estraneo, ma avrei voluto essere là

Da che mi ricordo ho progettato viaggi, avventure e banchetti fin da bambina. 
Sdraiata sul pavimento della mia camera sfogliavo il National Geographic, rimanendo le ore a guardare quelle foto patinate. Le immagini che più mi rapivano però non erano quelle di esotici paesaggi o di siti archeologici. Erano foto di persone in luoghi sperduti della terra.

Una che ricordo in modo particolare è di un villaggio dell'India centrale, dove una donna avvolta in un sari turchese era intenta ad accendere un fuoco sopra il quale vi era appesa una pentola annerita. Incantata ricordo di aver ispezionato attentamente la misteriosa pietanza color ocra che cuoceva al suo interno. Quel luogo non poteva essermi più estraneo, ma avrei voluto essere là a sentire l'onore della legna bruciata, ascoltare il fuoco scoppiettare e assaggiare il cibo che mi sembrava essere il più delizioso che potessi immaginare. Quella foto per me era la porta verso un altro mondo, altri colori, altri sapori.

Oggi, dopo tanti anni dal primo momento in cui nasce dentro di me l'idea di un viaggio, ad animare la mia curiosità e a stimolare la mia fantasia non è soltanto le cose che vedrò e che visiterò. A stuzzicare le mie aspettative oltre ai monumenti e ai paesaggi, sono anche i piatti che mangerò. Per questo la prima cosa che faccio appena arrivo in un posto nuovo è buttarmi per le strade, intrufolarmi tra la gente, curiosare tra i mercati e poi rallentare il passo e annusare l'aria perché mi piace provare ad immaginare attraverso gli odori cosa starà assaporando chi vive li.

Oltre a questo amo mettermi a caccia del "miglior ristorante". Ma a guidare la mia ricerca non sono solo i suggerimenti di una buona guida, perché per "migliore ristorante" non intendo il più costoso o il più alla moda. Intendo quello che meglio interpreta la cucina locale, che la rappresenta nella sua forma più autentica, genuina e gustosa in modo che attraverso i piatti della tradizione del posto in cui sono, riesco a conoscere il popolo, si svela e mi racconta la sua storia, scoprendo gli ingredienti mi racconta il territorio e godendo dei suoi profumi e dei suoi sapori riesco a dialogare meglio e alla fine per magia si riesce persino a comunicare pur parlando lingue diverse. 

Può sembrare strano ma più si va a cercare, scoprire e provare prodotti locali più si contribuisce anche alla loro sopravvivenza.
Viviamo in un periodo dove purtroppo per noi la globalizzazione sta cancellando le produzioni locali, prime fra tutte le più piccole. Lo scenario che si prospetta e che da Roma a Dakar, da New York a Rio de Janeiro si mangeranno le stesse cose, bisogna darsi da fare per scongiurare questo disastro dovuto alle cattive abitudini dei "non viaggiatori" quelli che rinunciano alla scoperta delle cucine del posto per banalissime, impersonali e ovvie proposte internazionali rinunciando alla storia e alla poesia.

Spero e mi auguro che questo mio scrivere sia da stimolo per chi mi legge per alimentare la curiosità e di aiuto a mettere sempre più gusto nei propri viaggi. 
Io dal canto mio non mi stancherò mai di andare a scovare i "migliori ristoranti". Non mi stancherò mai di assaggiare nuovi piatti in nuovi luoghi. Non mi stancherò mai di tornare in posti dove sono già stata per riassaggiare piatti che proprio non riesco a dimenticare.

Vorrei che queste parole fossero una piccola finestra spalancata sullo sconfinato, variegato e molteplice panorama delle cucine del mondo.

martedì 6 agosto 2013

Visitare, conoscere e amare "Le Perigord et ses Salades"

Visitando la Francia uno dei miei migliori ricordi è legato al sud ovest della Francia e propriamente a le Perigord.

Con il termine Perigord, si indica una zona geografica del Sud Ovest della Francia e che grossomodo corrisponde alla Dordogna, uno dei dipartimenti nei quali è suddivisa la regione dell’Aquitania. A sua volta, il Perigord è diviso in quattro aree differenti: Perigord Rouge, Perigord Blanc, Perigord Noir e Perigord Vert.

Non si può comprendere e apprezzare la Dordogne-Périgord senza amare la natura e non si può non venire nel Périgord senza visitare Sarlat e la vallata della Dordogne, famose per i paesaggi pittoreschi di Castelnaud e Limeuil, che recano il marchio di “Plus beaux villages de France”, e i castelli medievali di Beynac e Castelnaud.

Non dimentichiamo poi che la Dordogne è la terra dei 1001 Castelli.

Come dicevo, Rouge, rosso, è la zona intorno a Bergerac e deve il suo nome ai pregiati vini prodotti nelle sue storiche cantine e al colore delle foglie dei vigneti i pampini in autunno; Blanc, bianco, ha Riberac come centro principale e la bella e candida pietra calcarea come prodotto tipico, da cui il nome. Noir, nero, per i fitti boschi di querce, ha la cittadina di Sarlat la Caneda come capoluogo; infine il Perigord Vert, così chiamato per i suoi pascoli che, grazie alla presenza di numerose sorgenti sotterranee ed al clima mite, restano verdi per tutto l’anno.

Se non bastassero i suoi paesaggi, i suoi pittoreschi villaggi e la sua storia millenaria a farci sognare di visitare questa bella parte di Francia, il Perigord ha un’altra carta da giocarsi: la sua gastronomia.

Non solo foie gras e tartufi neri, che già da soli basterebbero, ma anche i meravigliosi salumi di suino "Cul Noir" così come di cinghiale, di cervo o di oca e anatra; formaggi di vacca, pecora e capra; fragole dolci, succose e profumate come non se ne trovano più; noci tenere e saporitissime dalle quali si estrae un olio davvero ottimo e poi i vini, famosi ed apprezzati in tutto il mondo, come i rossi e i bianchi di Bergerac o il dolce e dorato Montbazillac, compagno ideale e praticamente inseparabile del foie gras. La vicinanza con il Limousin e i verdi pascoli del Perigord Vert, forniscono una delle carni bovine più apprezzate al mondo, a pari merito con la nostra Chianina.

Nel ricco menù perigordino, les salades, le insalate, occupano un posto di tutto rilievo. Costituiscono l’entree di pranzi o cene di più portate, così come il piatto unico di un pranzo o una cena leggera. Praticamente ogni bistrot o table d’hote le propone. Le principali e più frequenti sono la Salade perigourdine, la Salade de gesiers de canard e la Salade de chevre chaude, quest’ultima non di origine perigordina, ma comunque molto diffusa, come nel resto della Francia, e qui proposta con gli ingredienti tipici della zona.

Non si tratta di vere e proprie ricette, piuttosto di suggerimenti su come utilizzare al meglio alcuni dei meravigliosi prodotti del Perigord.

Soprattutto per quanto riguarda la Salade perigourdine, si possono variare le lattughe, possono esserci o meno i pomodori o la pancetta rosolata, anche il foie gras non sempre è compreso, ma di sicuro non devono mancare il magret de canard séché, affumicato o meno, le noci e l’olio di noci. Il magret de canard séché, è uno dei salumi tipici della regione e altro non è che petto d’anatra messo dapprima sotto sale e poi fatto stagionare da pochi giorni ad un massimo di tre settimane con pepe ed altre spezie a scelta. Ne esiste anche una versione farcita di foie gras, che è di una bontà indescrivibile. Piuttosto facile da fare anche a casa a patto di avere un filetto di petto d’anatra di ottima qualità e cicciottello.

Magret de Canard séché fait maison
1 petto d’anatra
di circa 300 g
500 gr di sale grosso
1 cucchiaio di pepe

macinato fresco
spezie ed erbe aromatiche

a scelta, facoltative
Versate uno strato di sale in un contenitore poco più grande del petto d’anatra, adagiatevi la carne con la pelle in basso e coprite con il resto del sale. Chiudete il contenitore con il suo coperchio e con della pellicola e riponetelo nella parte meno fredda del frigorifero. Il tempo di salatura varia da 12 a 24 ore a seconda del peso del filetto e dal gusto che si vuole ottenere. Per un filetto di 300 g ed un gusto non troppo salato, 12 ore sono più che sufficienti. Trascorso questo tempo, togliete il petto dalla saltura e strofinatelo con un panno pulitissimo per eliminare tutto il sale. Ricopritelo completamente con il pepe macinato, premendo delicatamente con le mani per far aderire bene il pepe alla carne, ed adagiatelo su un panno asciutto e pulito. Cospargetelo con le spezie e le erbe scelte, (per me pepe rosa e timo), ed avvolgetelo nel panno. Fatelo stagionare in frigorifero, nella parte meno fredda, ma non nel cassetto della verdura, perché troppo umido. Anche il tempo di stagionatura varia a seconda del prodotto che si vuole ottenere e consumare: può essere gustato già dopo 48 ore, se si desidera una carne ancora rossa, morbida e umida, oppure attendete fino ad un massimo di tre settimane se si vuole una carne più secca e stagionata. Al momento di utilizzarlo, affettatelo non troppo sottile e gustatelo accompagnandolo da pane fresco o tostato ancora caldo, composta di fichi o fichi freschi o anche sottaceti.

Come dicevo, il magret de canard séché, è il principale ingrediente della Salade perigourdine, composta da lattuga, meglio se una misticanza, condita con una vinaigrette di olio di noci, aceto di vino rosso - (per me un aceto di vino Bordeaux invecchiato un anno in botti di quercia) e sale, sulla quale vengono disposte fettine di magret, noci e crostini di pane. Per una versione più lussuriosa una fetta di foie gras adagiata su del pane di campagna tostato è il massimo! Se poi vogliamo strafare, due lamelle di tartufo nero, quando è stagione, non ce le faremo certo mancare.


giovedì 4 aprile 2013

Vi racconterò di un viaggio...

Tutto è cominciato quando mi resi conto che soffrivo di stanchezza diffusa, noia quotidiana, ira improvvisa, e si... ero arrivata al capolinea....troppo lavoro...dovevo trovare un rimedio... possibilmente un rimedio poetico, avevo bisogno di qualcosa...ma, di cosa?!...ma, certo!...di un annuncio!:
- «Cercasi disperatamente giorni di vacanza».Avevo deciso che la mia vita aveva bisogno di fermarsi e soprattutto avevo bisogno di riposo ma, questo non bastava volevo partire con il mio Principe Ranocchio ma, lui è un osso duro.

All’annuncio non rispose, avevo atteso giorni, settimane e niente, lui non mi stava a sentire, e soprattutto non si sentiva in dovere di soccorrermi.

Provai allora con un nuovo annuncio: - Cercasi disperatamente compagno di viaggio per recarsi sull’isola che non c’è». Mi rispose subito lui: - «Principe Ranocchio, bello e generoso offre servizio baci per salvare bella donzella, generosa e buona per offrirle ottimo soggiorno in Hotel nel Bel Paese dei Balocchi». Accettai immediatamente e ci incontrammo il giorno stabilito...

Fu una grande sorpresa...immaginavo fosse lui o meglio ci speravo tantissimo...

Ero certa che fosse lui il mio Principe… lo riconobbi subito vedendolo arrivare da lontano dal suo bel portamento baldanzoso e dalle sue gambette slanciate, e man mano che si avvicinava da quel suo splendido sorriso...si presentò con un bel bouquet di matite colorate belle a punta e con una maschera sul viso...un attimo di attesa...e poi...appena tolta la maschera... ci fu l’ennesimo colpo di fulmine.

Dopo generosi abbracci e baci fui travolta da un passo di danza a due...tra piroette e casquet...fui letteralmente trascinata dalla passione.

Adesso volevamo partire e molto di più volevamo anche rinnovare la nostra promessa d’amore.

Annunciammo a tutta la famiglia della nostra decisione di partire, tutti ne furono entusiasti e vollero aiutarci nella ricerca di dove andare a trascorrere la nostra piccola vacanza: Mamie arrivò con un ritaglio di giornale dove c’era scritto: «Affittasi appartamentino in mezzo alla foresta con vicino miniera: 7 posti letto e angolo cucina da riordinare. Aria pulita e animali a vista»; Papà aveva trovato un monolocale, struttura in mattoni, completa di camino con difesa antilupo, Cristina e Flà una splendida casa di pan di zenzero con serramenti in marzapane, tetto di panna montata e porta di canditi adatta a due bambini supergolosi e ghiottoni, la Nonna ci offrì un compagno di viaggio: un grillo parlante come coscienza per bambini incoscienti, Luciano e Velia trovarono un ottima offerta ma, che fu subito acquistata: affitto campo dei miracoli per coltivazione zecchini d’oro, ma, il pensiero più tenero arrivò da Tommy, il nostro nipotino, ci regalò le briciole di pane di Pollicino da utilizzare come segnapercorsi e soprattutto per ritrovare la strada di casa.

Alla fine contattammo l’Agenzia Matrimoniale «Principesse e Principi Ranocchi» che offriva castelli romantici con panorama di tutte le fiabe e scegliemmo di andare a Parigi la città degli innamorati...

Scegliere il mezzo di trasporto fu un impresa tra: carrozza con tiro a otto cavalli neri per importanti balli al castello, zucca trasformabile in carrozza a due posti con sedili vellutati, passaggio gratuito su rondine per viaggio nel mondo delle persone piccole, era veramente difficile scegliere, alla fine optammo per lo stivale delle sette leghe per viaggi comodi e veloci...e in men che non si dica giungemmo a PARIGI, BELLA e ROMANTICA, come non mai. Arrivammo di mattina era fine primavera, quando le nuvole si inseguono e si specchiano nella Senna nelle giornate ancora fresche, preludio di un’estate dolcissima seduti ai tavolini dei bistrot di Saint Germain des Prés godemmo della bella giornata.

Una leggera pioggerella improvvisa ci diede il benvenuto... ricordo che dissi: «Siamo fortunati!!!, in uno dei miei film preferiti (Sabrina), la protagonista si augurava di vedere Parigi con una leggera pioggerellina questo perchè i platani dei giardini, bagnati dall’acqua emanano un odore particolare che profuma tutta la città».

Piove... improvvisamente... e i tetti di Parigi s’accendono di un lucido sfavillio. Non une grandeur de roi, ma un angolo sperduto che si riveste di gaia dignità, frizzante, sfuggente giocoso.

Su tutto la musica de «La vie en Rose», cui la pioggia si accorda e lontano all’orizzonte, uno sguardo di rosa intenso che dissolve ogni modernità mentre un esprit bohemien svela per un momento la sua latente, eterna esistenza.

Un istante di pioggia basta a Parigi per un arcobaleno, pennellate di joie de vivre sui capricci di un cielo bizzarro e sulle note di una canzone senza tempo dedicata a tutti gli innamorati.

Questo fu il nostro ingresso a Parigi.

LA VIE EN ROSE
Des Yeux Qui Font Baisser Les Miens
Un Rire Qui Se Perd Sur Sa Bouche
Voila Le Portrait Sans Retouche
De L’homme Auguel J’appartiens
Quand Il Me Prend Dans Ses Bras,
Il Me Parle Tout Bas
Je Vois La Vie En Rose,
Il Me Dit Des Mots D’amour
Des Mots De Tous Les Jours,
Et Ca Me Fait Quelques Choses
Il Est Entre Dans Mon Coeur,
Une Part De Bonheur
Dont Je Connais La Cause,
C’est Lui Pour Moi, Moi Pour Lui
Dans La Vie Il Me L’a Dit,
L’a Jure Pour La Vie,
Et Des Que Je L’apercois
Alors Je Sens En Moi,
Mon Coeur Qui Bat...
Des Nuits D’amour A Plus Finir
Un Grand Bonheur Qui Prend Sa Place
Les Ennuis, Des Chagrins S’effacent
Heureux, Heureux A En Mourir


LA VIE EN ROSE
Occhi che fanno abbassare i miei
Un sorriso che si perde sulla sua bocca
Ecco il ritratto senza ritocchi
Dell’uomo a cui appartengo
Quando mi prende tra le sue braccia
Mi parla piano
Io vedo la vita in rosa,
Lui mi dice parole d’amore
Le parole di tutti i giorni,
E in me questo provoca qualcosa
Lui è entrato nel mio cuore,
Una parte di felicità
Di cui conosco la causa,
Lui è per me, e io per lui
Nella vita lui me l’ha detto,
L’ha giurato, per la vita,
E da quando me ne sono accorta
Allora io sento in me,
Il mio cuore che batte...
Notti d’amore a non finire
Una grande felicità prende il suo posto
I fastidi, i dispiaceri si cancellano
Felice, felice da morire.

Camminammo abbracciati, stretti, stretti sotto ad un piccolo ombrello rosa, ci ritrovammo su Pont d’Arcole il famoso ponte della scena finale del film «Tutto può succedere» con le torri di Notre Dame sullo sfondo.

Di là di Pont d’Arcole, sulla Rive gauche passeggiammo e curiosammo tra Les bouquinistes, le bancarelle di stampe e libri di seconda mano, ogni tanto ci fermavamo a godere dello spettacolo dell’Ile de la Cité, il cuore di sempre di Parigi. Di fronte alle bancarelle, il nostro Albergo piccolo e delizioso....ci aspettava RICCIOLI D'ORO la quale curiosamente portava una strana parrucca turchina, ci spiegò che era stata nominata aspirante fata, tutto sommato non le stava male, ci assegnò una camera in stile assolutamente parigino con letto a baldacchino con 20 materassi di seta e scaletta d’oro e con ahimè pisello incorporato, il caminetto acceso dava calore e la camera era perfetta per coppie innamorate, le finestre e il balconcino si affacciavano sulla superba Cattedrale di Parigi.

Dopo un bellissimo bagno di schiuma con “Bagnoschiuma Arruffapiume” della «Brutti Anatroccoli» ci vestimmo per uscire e continuammo la nostra passeggiata.

Intorno a Notre Dame, ad ogni angolo si vive l’emozione dei luoghi della storia di Parigi. La Crypte Archéologique, con reperti celtici della Parigi di 2000 anni fa; la Sainte-Chapelle voluta nel 1248 da Luigi IX per accogliere la corona di spine di Gesù; la Conciergerie ovvero la prigione della rivoluzione del 1789 dove furono detenuti la regina Maria Antonietta, Danton e Robespierre in attesa della ghigliottina oltre ad altri prigionieri illustri. Point Zero, davanti a Notre Dame è invece il punto in cui si misurano tutte le distanze riferite a Parigi: calpestatelo e tornerete a Parigi.

Da Notre Dame continuando a passeggiare a St-Germain-des-Pres, il quartiere che negli anni Cinquanta del Novecento fu degli intellettuali, degli scrittori, dei letterati. Oggi in boulevard St-Germain non passeggiano più Hemingway, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir ma sono rimasti i café e le brasserie che frequentavano, così piacevoli e così belli. Tra i Cafè storici, c’è Les Deux-Magots, frequentato a inizio ‘900 da poeti come Rimbaud e pittori come Picasso, e il più prestigioso di tutti, il Le Flore, il cafè degli intellettuali come Sartre e Camus. Il tempo seduti ai tavolini sembra non passare mai, tra una lettura, un piatto di coq au vin (galletto al vino), una conversazione e quell’atmosfera che solo Parigi sa regalare!

«Tutti dovrebbero avere la fortuna di vedere Parigi», La Ville Lumiere. Se poi si riesce anche ad avere la fortuna di entrare a cenare in una famosa brasserie quale Le Grand Colbert, il quadro è perfetto; un locale Bella Epoque, perfetto per un incontro romantico. Assolutamente proustiano, l’atmosfera fin de siècle che si mastica è incredibile.


Ed ecco sul più bello spuntare fuori il grillo che amorevolmente ci aveva regalato la Nonna: «non è un pò troppo caro questo posto?» - «vi porto io in un bel posto!!! Proprio qui vicino! Da un mio vecchio amico!!! Il più grande Chef di Parigi ve lo assicuro. Lo dice anche il più assiduo frequentatore del locale nonchè il più potente critico inflessibile gastronomico di Parigi, Anton Ego, pensate...Può creare la reputazione di un ristorante o distruggerla con una sola recensione» - «La vera cucina è questione di sperimentazione, di coraggio, di curiosità. Si tratta di mescolare ingredienti inediti e dare vita a nuove (e magari non sempre riuscite) sintesi, come spiega Remy, il mio grande amico chef» «VI PORTERO’ DA RATATOUILLE!!!, CHE NE DITE?». «Cosa possiamo dirti...CHE CI AVEVI CONVINTO DA -«Non è troppo caro questo posto?». Dopo una bella risata una sbirciatina qua e là, salutammo gentilmente e poi...Di corsa ad assaporare le delizie dei piatti cucinati da Remy. Piatto forte: la ratatouille, da cui prende il nome il locale.

 

Ratatouille
Un altro classico francese, che nella reinterpretazione di casa mia ancora oggi preparo in estate, quando la varietà di verdure adatte è più ampia e ha tutto il sapore dell'estate. Cucinandola una volta, ne preparo a sufficienza per tre pasti. Del tutto priva di grassi, la ratatouille sembra ugualmente ricca grazie al sugo che producono le verdure. Un segreto per ottenere il massimo del gusto, fattela cuocere adagio, adagio.

Ingredienti
1,5 kg. di pomodori
1,5 kg. di zucchine
1,5 kg. di melanzane
8 spicchi d'aglio
prezzemolo
basilico
timo fresco
Sale e pepe macinati al momento
Olio extravergine di oliva
Prezzemolo, basilico e timo fresco per guarnire

- La prima versione si serve a temperatura ambiente come minestra.
- La seconda versione, che riutilizza quanto avanzato dalla prima, si serve come contorno per il pollo o per la carne in genere.
- La terza versione, che riutilizza quanto avanzato dalla seconda, si usa per guarnire la pizza, creando un ottimo piatto unico o un antipasto.

Versione A
1. Utilizzate quantità identiche di pomodori, zucchine e melanzane. Lavate e tagliate a fette spesse le verdure.
2. In una pentola grande a fondo spesso, formate alcuni strati di verdura disponendo prima le melanzane, poi i pomodori e infine le zucchine. Ripetere fino a quando la pentola è piena fino a quasi il bordo, aggiungendo fra uno strato e l'altro qualche spicchio d'aglio, un po' di prezzemolo, basilico e timo. Salate e pepate.
3. Coprite e fate cuocere a fuoco molto basso fino a quando le verdure risultino morbide, all'incirca 2 ore 2 ore e mezzo.
4. Lasciate raffreddare e servite dopo 20 minuti in fondine da minestra: a questo punto, infatti le verdure hanno rilasciato tutta la loro acqua, la ratatouille è più una minestra. Aggiustate di sale e pepe e insaporite con un velo di olio extravergine e una bella manciata di prezzemolo, basilico e timo tritati grossolanamente.

Versione B
1. Fate scaldare 2 cucchiai di olio extravergine e dopo averle scolate dal loro liquido (che potrete riscaldare e bere tiepido), unitevi le verdure avanzate dalla ratatouille.
2. Fate cuocere a fuoco dolce fino a quando il misto di verdure si addensa.
3. A piacere unite 1/2 tazza di formaggio grattugiato (parmigiano o qualunque varietà di vostro gusto.

Versione C
1. Comprate o preparate ( con farina, acqua, lievito e sale) la pasta per la pizza.
2. Potete sbattete un uovo con le verdure della ratatouille avanzate dalla seconda preparazione oppure unirla a una dadolata di mozzarella fresca ( meglio se di bufala).
3. Disponete il composto di verdura sulla pasta stesa.
4. Aggiungete un filo di olio extravergine e se volete anche un po' di parmigiano grattugiato e fate cuocere come una normale pizza.